Le fotografie sono state intese come illustrazioni, ma non è più quella la loro funzione. La macchina fotografica non illustra, dice. E' destinata a diventare il più grande reporter della vita contemporanea.

(Archibald MacLeisch)


domenica 27 marzo 2011

La storia

La nascita della stampa illustrata fu quasi contemporanea all'invenzione della fotografia: nel 1839 Louis Daguerre realizzò le prime immagini su lastre di rame patinato d'argento. Esattamente dodici anni dopo la prima fotografia, scattata su lastre di stagno da Niepce nel 1826, che ritrae il paesaggio che egli vede dalla sua finestra a Saint-Loup-de-Varennes, Daguerre riesce ad immortalare uno scorcio di Parigi, portando il tempo di posa dalle famose 8 ore a soli 8 minuti. Daguerre è stato il primo fotografo ad aver incluso un uomo all'interno di una fotografia.

Les boulevards de Paris, Louis Daguerre
Solo tre anni dopo, nel 1842, nasce il primo settimanale di immagini, The illustrated London news, il cui fondatore, Herbert Ingram, prometteva ai lettori “un resoconto continuo degli avvenimenti mondiali importanti, dei progressi sociali e della vita politica, per mezzo di immagini costose, varie e realistiche. La rivista era venduta al prezzo di six pence e conteneva sedici pagine e trentadue illustrazioni realizzate con tecniche xilografiche. 
Al successo del magazine a colori britannico, segue la fondazione di altre riviste illustrate: L'illustration a Parigi, L'illustrazione italiana a Milano, Revista Universal a Città del Messico, Illustriert zeitung a Lipsia e Frank Lesie's illustrated newspaper a New York.

La prima pagina, della prima edizione del magazine
Contemporaneo all'invenzione della fotografia fu l'uso propagandistico e menzognero delle immagini fotografiche: nel 1855, Roger Fenton, modesto pittore fra i fondatori della Royal Photografic Society, viene incaricato dal governo britannico di realizzare un reportage sulla guerra di Crimea, nel quale si ritraesse una guerra senza sofferenze né morti, dove tutto fosse in perfetto ordine.
Ma fu alla fine dell'800, proprio in coincidenza con l'invenzione della lastra a mezzatinta, nella cosiddetta era del reporter, che nacque il vero e proprio fotogiornalismo. E nel 1895, grazie alla box camera prodotta dalla Kodak, la fotografia approdò stabilmente nelle pagine dei grandi quotidiani.

 
La box camera prodotta da Kodak



Life, il primo photo magazine

La grande guerra rappresentò la premessa al grande sviluppo del giornalismo fotografico negli anni '20 e '30. Furono questi gli anni d'oro del fotogiornalismo: la professione fotografica era sostenuta dai regimi totalitari e ,negli Stati Uniti, dall'amministrazione del presidente Roosevelt, che, dopo la crisi del '29 aveva dato il via al Farm Security Administration. Ma la vera svolta fu la pellicola da 35 millimetri, che “permetteva di scattare fotografie istantanee senza posa, imponendo una nuova estetica che valorizzava il realismo del quotidiano e la qualità semicasuale di composizioni istantanee”.
Il fotogiornalismo fu soprattutto un fenomeno tedesco (per la supremazia tecnologica) e americano (per la forza del mercato). Dopo il successo delle fotografie nei quotidiani, il linguaggio fotografico divenne proprio anche dei periodici: nacquero Fortune, nel 1930, e Life, nel '36, entrambe fondate da Henry Luce. Quest'ultima diventò la vera testata del grande giornalismo: la fotografia verrà da ora in poi concepita come un modo di dare le notizie, che vede le parole al servizio delle immagini, non più il contrario.
Alla vigilia della pubblicazione della rivista, il poeta Archibald MacLeisch scriveva in un telegramma al fondatore:


Le fotografie sono state intese come illustrazioni, ma non è più quella la loro funzione. La macchina fotografica non illustra, dice. E' destinata a diventare il più grande reporter della vita contemporanea.

La copertina del primo numero di Life


Il 1936 fu un anno fatidico per l'Europa, ormai sull'orlo della seconda guerra mondiale e per gli Stati Uniti, impegnati ad affrontare la Grande depressione: fu per questo motivo che il primo numero di Life fu dedicato alla costruzione di una grande opera pubblica: la diga di Fort Peck, la cui realizzazione fu ordinata dal presidente Roosevelt, che assurse a simbolo della volontà e dell'orgoglio americani. La fotografa era Margaret Bourke-White.

Il 6 giugno 1944, data dello sbarco in Normandia, la rivista inviò al seguito delle truppe americane Robert Capa, fotoreporter già conosciuto per gli scatti fatti in piena guerra civile spagnola. Era l'unico fotografo presente al momento dello sbarco, ma degli oltre cento scatti realizzati sotto il fuoco nemico, se ne salvarono solo 8, leggermente fuori fuoco a causa del tremore delle mani del fotografo dovuto alla concitazione del momento.

 Numero di maggio 1938, copertina di Rovert Capa
Alla fine degli anni '50 la rivista iniziò a perdere lettori a causa dell'avvento della televisione. Negli anni '60 Life continuò a servirsi del contributo di grandi fotografi, documentando grandi avvenimenti storici, come la guerra del Vietnam. Ma a causa del continuo calo delle vendite la rivista fu costretta a sospendere la pubblicazione settimanale l'8 dicembre 1972.
Fino al '78 la rivista uscì attraverso i Life Special Reports, monografie dedicate a specifici temi, per poi diventare un mensile dal '78 al 2000. La sospensione definitiva delle pubblicazioni è stata annunciata nel 2007, pur mantenendo un archivio fotografico visionabile sul sito http://www.life.com/ .







La lezione dei grandi fotoreporter

Robert  Capa

Robert  Capa
Il corrispondente di guerra ha in mano la posta in gioco, cioè la vita, e la può puntare su questo o quel cavallo, oppure rimettersela in tasca all'ultimo minuto. Io sono un giocatore d'azzardo.

Robert  Capa, pseudonimo di Andreas Friedmann, è considerato uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi. Le sue fotografie hanno immortalato i momenti storici più importanti della prima metà del secolo: dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale, dal conflitto in Cina alla prima guerra arabo-israeliana, al conflitto in Indocina.
La sua fotografia più famosa è Il momento della morte, l'immagine più riprodotta della guerra civile spagnola, da molti critici considerata la più bella foto di guerra che sia stata mai scattata. L'immagine diventò famosa dopo la pubblicazione su Life, il 12 luglio 1937.

Il momento della morte
Tuttavia, non esistono certificazioni di come e dove l'immagine sia stata scattata. I critici si sono chiesti, inoltre, come fosse possibile che il fotoreporter si trovasse così vicino al miliziano repubblicano, con la camera puntata e l'obiettivo a fuoco, proprio nel momento in cui egli veniva colpito a morte. Il giallo sembrerebbe essersi risolto solo nel '97, quando una giornalista inglese, Rita Grosvenor, avrebbe identificato il miliziano della fotografia: Federico Borrel Garcìa, ucciso a Cerra Muriano, sul fronte di Cordoba, il 5 settembre 1936, come comunicato da Magnum, l'agenzia di Capa.
All'affermazione del corrispondente O. D. Gallagher, che obiettò a Capa che la macchina non fosse messa bene a fuoco, Capa rispose:

Se vuoi scattare buone istantanee di un'azione, non devono essere del tutto a fuoco. Solo se la mano ti trema un poco, riesci a scattare delle istantanee che diano l'idea dell'azione.

Robert Capa morì nel 1954, durante la Prima guerra d'Indocina quando, al seguito di una squadra di truppe francesi, saltò in aria dopo essersi avventurato in un campo minato.

Don McCullin

Don McCullin
Io ero angosciato e confuso da questa guerra come mai prima, e non ne potevo vedere la minima giustificazione. Neppure per la mia presenza laggiù, salvo che fosse per ricordare alla gente, attraverso le mie fotografie, la futilità di tutte le guerre.

Donald McCullin è un fotoreporter di guerra britannico, di fama internazionale, noto soprattutto, per i suoi reportage di guerra.
E' forse in Biafra, nel corso di una sanguinosa guerra di secessione in una poverissima regione nigeriana alla fine degli anni sessanta, che si rende conto di quale sia davvero il suo compito di corrispondente dal fronte: raccontare la guerra dalla parte delle vittime civili.

La foto più nota fra quelle scattate in Biafra raffigura un ragazzo albino, ridotto pelle e ossa, che scuote un barattolo vuoto di carne in scatola francese, un'immagine che - si legge nell'autobiografia del fotoreporter - deve restare scolpita nella mente di tutti coloro che l'hanno vista.
McCullin, negli ultimi anni, ha lasciato la vita da fotoreporter di guerra, per ritirarsi in Somerset con la sua seconda moglie e i suoi 5 figli. I suoi più recenti lavori fotografici riguardano paesaggi, still-life e ritratti su commissione.

 Benjamin Stora
Benjamin Stora
Benjamin Stora è uno storico maghrebino, tra i primi a studiare e valorizzare l'importanza della fotografia come fonte storiografica. 
Secondo Stora, la fotografia, rivista dopo un certo lasso di tempo, in una prospettiva storica, acquista valore in quanto documento del passato.
Le immagini da lui scattate riguardano la guerra del Vietnam e d'Algeria.





sabato 26 marzo 2011

Andrea Frazzetta: un'intervista

Quando incontrai per la prima volta l'Agenzia Grazia Neri, mi ricordo che arrivai lì con il portfolio contenente le mie foto urbane di architettura. Mi dissero: "Sei bravo, intraprendente. Però noi facciamo giornalismo. Bisogna che ti butti in mezzo alla strada e che racconti le storie delle persone". Ed è proprio l'approccio umano la cosa che mi piace di più, il fatto di poter entrare nelle storie delle persone. Se vuoi essere un fotografo migliore devi essere, innanzitutto, una persona migliore.

L'espresso, Vanity Fair, National Geographic. Ma anche New York Times, El Pais Semanal, The Guardian weekend. Sono solo alcune delle riviste, italiane e internazionali, con cui Andrea Frazzetta ha collaborato.
Vincitore del Canon Prize Italian Young Photographer 2006 e dello Yan Geffroy Award nel 2009, Andrea Frazzetta ha fatto del fotogiornalismo non solo una professione, ma anche una ragione di vita.

Com'è nato il tuo interesse per la fotografia?

Ho studiato Architettura all’università e i docenti ci spingevano ad usare la fotografia come strumento di racconto dei luoghi. Man mano, soprattutto nel corso dei viaggi che ho intrapreso, ho incominciato ad interessarmi anche alle persone che vivevano in quei luoghi e al loro modo di viverli.
Il mio primo lavoro fu un reportage in Amazonia: passai dall’urbanità alla foresta, fu un vero e proprio colpo di fulmine. Capii che era la cosa che volevo fare.

Cos’è che ti piace della fotografia di reportage?

Il fatto di poter entrare nelle storie delle persone e di poterle raccontare. L’essere capace di farmi coinvolgere, di immergermi in mondi che non sono particolarmente vicini a me. Questa è una delle possibilità più belle che ti offre questo mestiere. E’ la cifra umana che porta con sé.

C’è un fotoreporter del passato o dei colleghi che hai preso a modello?

I grandi maestri dell'Agenzia Magnum sono un po' il primo amore per chi inizia questo lavoro: Paolo Pellegrin e Alex Maioli sono, per noi fotogiornalisti, un punto di riferimento. Mi piacciono anche i fotografi che non facciano per forza solo giornalismo: Martin Parr, fotografo storico di Magnum e Alec Soth. Ma anche Mario Giacomelli, grande maestro le cui foto hanno una capacità pazzesca di raccontare. Tutti gli italiani dovrebbero vederle. Con la fotografia ti innamori ogni cinque minuti. Internet ti dà la possibilità di innamorarti ogni giorno.

Ci sono dei casi in cui la fotografia si presta meglio a raccontare rispetto alle parole?

La fotografia è un codice comune, trasversale. E’ questa la sua forza. Vedere una foto di guerra può avere un impatto più forte rispetto a un reportage, che richiede del tempo. Su questo tipo di ritmo la fotografia ha qualcosa in più. Poi a me piace tantissimo l’integrazione: il fatto di entrare d’impatto al livello visivo e poi approfondire leggendo il reportage.

Con l’avvento delle nuove tecnologie digitali si è imposto il cosiddetto citizen journalism, nuova forma di giornalismo che si fonda sulla partecipazione attiva dei cittadini che, anche utilizzando una semplice macchina fotografica, possono documentare qualsiasi fatto cui siano testimoni.
Il citizen journalism non rischia di mettere in pericolo la professione di fotoreporter?

Secondo me no. Il fatto che una tecnologia come il digitale possa consentire a delle persone di raccontare le proprie storie rappresenta una grande conquista della democrazia e della comunicazione. Naturalmente rimane la differenza fra la foto episodica, quella che può essere scattata da un soggetto qualunque con l’i-phone durante le rivolte di Teheran per esempio, che ha un valore altissimo dal punto di vista comunicativo e la foto scattata dal professionista: quest’ultimo è dotato non solo di una professionalità, ma anche di una progettualità, cioè della capacità di progettare una storia.

Com’è organizzato il tuo lavoro?

La mia professione è sempre stata mediata da un’agenzia. Il mio modo di rapportarmi con i giornali avviene in due maniere: o il lavoro mi viene commissionato, o sono io stesso a proporre le mie storie all’agenzia o direttamente ai giornali con i quali lavoro da anni.
La mia scelta di restare legato all’agenzia è determinata dalla possibilità di amplificare la mia capacità di distribuzione: una volta finito il lavoro, questo rimane nell’archivio digitale dell’agenzia, on-line, che può essere visto da più redazioni e continuare a girare anche dopo anni.

Qual è il lavoro che ti ha più entusiasmato?

Quello che ho svolto in Congo, nel 2006, trattando il tema dei bambini soldato. E’ il primo lavoro col quale ho fatto un salto di qualità, quello che rimane un po’ un battesimo, sia professionalmente che affettivamente. E la foto a cui sono più legato l’ho scattata proprio lì: ritrae dei bambini di strada, ex bambini soldato recuperati da un’associazione di gesuiti che, vestiti da angelo, stavano preparando una recita natalizia.
Mare di mezzo è un altro lavoro a cui sono legatissimo, anche perché è quello con cui ho vinto il premio Canon come giovane fotografo italiano e quello che mi aiutato di più in termini di visibilità e di carriera. Si tratta di un reportage sul Mediterraneo: sono partito da Trieste con la macchina e sono tornato a Genova facendo tutto il giro del Mediterraneo. Volevo raccontare la vita quotidiana delle persone che vivevano lì e, allo stesso tempo, per me che sono nato a Lecce, è stato un po’ come ritornare alle mie radici.

Quali sono gli aspetti negativi della tua professione?

E’ difficile emergere e dare continuità al proprio lavoro. Probabilmente io sono stato più fortunato di chi inizia adesso, ma lo sono stato meno rispetto a chi ha cominciato dieci anni fa. 

Qual è lo stato del fotogiornalismo in Italia?

Rispetto agli altri paesi, facendo eccezione per gli Stati Uniti, siamo messi bene.
A livello internazionale siamo un buon mercato: sono tantissime le agenzie che vengono qui in Italia a farsi distribuire perché abbiamo veramente tanti giornali.
A livello di produzione ci sono delle testate ottime: ad esempio il Vanity Fair italiano è fenomenale, ha energie, capacità, è un buon prodotto, che riesce ad associare dei contenuti un po’ più bassi con dei buoni reportage.
L’unico paese che rimane a livelli irraggiungibili sono gli Stati Uniti. I giornali americani si stanno buttando sul web in una maniera eccezionale, il sito del New York Times ha dei contenuti altissimi.
Per quanto riguarda il fotogiornalismo sul web, l’Italia ancora è indietro.
La settimana scorsa è uscito il World Press Photo, concorso più importante per il fotogiornalismo che per la prima volta ha inserito la categoria di fotografie multimedia, cioè per il web.
Fra i sei finalisti c'è un italiano: Stefano De Luigi.

A che progetto stai lavorando adesso?

Mi piacerebbe portare avanti il lavoro sul Mediterraneo. E quello sull'Amazonia, dove sto compiendo un'indagine sul problema dell'inquinamento petrolifero. La seconda parte del lavoro è uscita da poco su Vanity Fair. Ma vorrei completarlo con una terza parte.

Che qualità deve avere un buon fotogiornalista?

Essere bravi tecnicamente non basta. Con l'avvento del digitale l'argomento tecnico mi sembra il meno vincolante. Piuttosto bisogna essere preparati culturalmente e umanamente, avere sensibilità, empatia e grande rispetto per le storie che si raccontano.
Vorrei citare la frase di Josef Koudelka, reporter di Magnum, grande maestro della fotografia. Quando gli chiedevano: "Cosa bisogna fare per diventare un grande fotoreporter?" Lui rispondeva: "Camminare, camminare, camminare". Il fotoreporter deve stare in mezzo alla strada, sporcarsi, camminare tanto, darsi il tempo di entrare nella storia che vuole raccontare. Deve avere un'indole un po' nomade. Ma anche essere leggero, discreto, invisibile: la condizione migliore il fotoreporter la raggiunge quando è diventato talmente familiare, talmente parte del contesto, da non rendersi evidente. Ma non è facile riuscire ad integrarsi.

Che consigli daresti a chi vuole intraprendere questa strada?

Io non ho frequentato nessuna scuola, nessun corso. Ho iniziato a fotografare tanto. Ma se dovessi dare un consiglio ragionevole, direi che frequentare una scuola di fotografia potrebbe essere utile. Ma consiglierei anche di andare alle mostre, di guardare foto, di sfogliare i giornali per capire cosa questi cercano. Ma soprattutto di fare delle esperienze all'estero.