Quando incontrai per la prima volta l'Agenzia Grazia Neri, mi ricordo che arrivai lì con il portfolio contenente le mie foto urbane di architettura. Mi dissero: "Sei bravo, intraprendente. Però noi facciamo giornalismo. Bisogna che ti butti in mezzo alla strada e che racconti le storie delle persone". Ed è proprio l'approccio umano la cosa che mi piace di più, il fatto di poter entrare nelle storie delle persone. Se vuoi essere un fotografo migliore devi essere, innanzitutto, una persona migliore.
L'espresso, Vanity Fair, National Geographic. Ma anche New York Times, El Pais Semanal, The Guardian weekend. Sono solo alcune delle riviste, italiane e internazionali, con cui Andrea Frazzetta ha collaborato.
Vincitore del Canon Prize Italian Young Photographer 2006 e dello Yan Geffroy Award nel 2009, Andrea Frazzetta ha fatto del fotogiornalismo non solo una professione, ma anche una ragione di vita.
Com'è nato il tuo interesse per la fotografia?
Ho studiato Architettura all’università e i docenti ci spingevano ad usare la fotografia come strumento di racconto dei luoghi. Man mano, soprattutto nel corso dei viaggi che ho intrapreso, ho incominciato ad interessarmi anche alle persone che vivevano in quei luoghi e al loro modo di viverli.
Il mio primo lavoro fu un reportage in Amazonia: passai dall’urbanità alla foresta, fu un vero e proprio colpo di fulmine. Capii che era la cosa che volevo fare.
Cos’è che ti piace della fotografia di reportage?
Il fatto di poter entrare nelle storie delle persone e di poterle raccontare. L’essere capace di farmi coinvolgere, di immergermi in mondi che non sono particolarmente vicini a me. Questa è una delle possibilità più belle che ti offre questo mestiere. E’ la cifra umana che porta con sé.
C’è un fotoreporter del passato o dei colleghi che hai preso a modello?
I grandi maestri dell'Agenzia Magnum sono un po' il primo amore per chi inizia questo lavoro: Paolo Pellegrin e Alex Maioli sono, per noi fotogiornalisti, un punto di riferimento. Mi piacciono anche i fotografi che non facciano per forza solo giornalismo: Martin Parr, fotografo storico di Magnum e Alec Soth. Ma anche Mario Giacomelli, grande maestro le cui foto hanno una capacità pazzesca di raccontare. Tutti gli italiani dovrebbero vederle. Con la fotografia ti innamori ogni cinque minuti. Internet ti dà la possibilità di innamorarti ogni giorno.
Ci sono dei casi in cui la fotografia si presta meglio a raccontare rispetto alle parole?
La fotografia è un codice comune, trasversale. E’ questa la sua forza. Vedere una foto di guerra può avere un impatto più forte rispetto a un reportage, che richiede del tempo. Su questo tipo di ritmo la fotografia ha qualcosa in più. Poi a me piace tantissimo l’integrazione: il fatto di entrare d’impatto al livello visivo e poi approfondire leggendo il reportage.
Con l’avvento delle nuove tecnologie digitali si è imposto il cosiddetto citizen journalism, nuova forma di giornalismo che si fonda sulla partecipazione attiva dei cittadini che, anche utilizzando una semplice macchina fotografica, possono documentare qualsiasi fatto cui siano testimoni.
Il citizen journalism non rischia di mettere in pericolo la professione di fotoreporter?
Secondo me no. Il fatto che una tecnologia come il digitale possa consentire a delle persone di raccontare le proprie storie rappresenta una grande conquista della democrazia e della comunicazione. Naturalmente rimane la differenza fra la foto episodica, quella che può essere scattata da un soggetto qualunque con l’i-phone durante le rivolte di Teheran per esempio, che ha un valore altissimo dal punto di vista comunicativo e la foto scattata dal professionista: quest’ultimo è dotato non solo di una professionalità, ma anche di una progettualità, cioè della capacità di progettare una storia.
Com’è organizzato il tuo lavoro?
La mia professione è sempre stata mediata da un’agenzia. Il mio modo di rapportarmi con i giornali avviene in due maniere: o il lavoro mi viene commissionato, o sono io stesso a proporre le mie storie all’agenzia o direttamente ai giornali con i quali lavoro da anni.
La mia scelta di restare legato all’agenzia è determinata dalla possibilità di amplificare la mia capacità di distribuzione: una volta finito il lavoro, questo rimane nell’archivio digitale dell’agenzia, on-line, che può essere visto da più redazioni e continuare a girare anche dopo anni.
Qual è il lavoro che ti ha più entusiasmato?
Quello che ho svolto in Congo, nel 2006, trattando il tema dei bambini soldato. E’ il primo lavoro col quale ho fatto un salto di qualità, quello che rimane un po’ un battesimo, sia professionalmente che affettivamente. E la foto a cui sono più legato l’ho scattata proprio lì: ritrae dei bambini di strada, ex bambini soldato recuperati da un’associazione di gesuiti che, vestiti da angelo, stavano preparando una recita natalizia.
Mare di mezzo è un altro lavoro a cui sono legatissimo, anche perché è quello con cui ho vinto il premio Canon come giovane fotografo italiano e quello che mi aiutato di più in termini di visibilità e di carriera. Si tratta di un reportage sul Mediterraneo: sono partito da Trieste con la macchina e sono tornato a Genova facendo tutto il giro del Mediterraneo. Volevo raccontare la vita quotidiana delle persone che vivevano lì e, allo stesso tempo, per me che sono nato a Lecce, è stato un po’ come ritornare alle mie radici.
Quali sono gli aspetti negativi della tua professione?
E’ difficile emergere e dare continuità al proprio lavoro. Probabilmente io sono stato più fortunato di chi inizia adesso, ma lo sono stato meno rispetto a chi ha cominciato dieci anni fa.
Qual è lo stato del fotogiornalismo in Italia?
Rispetto agli altri paesi, facendo eccezione per gli Stati Uniti, siamo messi bene.
A livello internazionale siamo un buon mercato: sono tantissime le agenzie che vengono qui in Italia a farsi distribuire perché abbiamo veramente tanti giornali.
A livello di produzione ci sono delle testate ottime: ad esempio il Vanity Fair italiano è fenomenale, ha energie, capacità, è un buon prodotto, che riesce ad associare dei contenuti un po’ più bassi con dei buoni reportage.
L’unico paese che rimane a livelli irraggiungibili sono gli Stati Uniti. I giornali americani si stanno buttando sul web in una maniera eccezionale, il sito del New York Times ha dei contenuti altissimi.
Per quanto riguarda il fotogiornalismo sul web, l’Italia ancora è indietro.
La settimana scorsa è uscito il World Press Photo, concorso più importante per il fotogiornalismo che per la prima volta ha inserito la categoria di fotografie multimedia, cioè per il web.
Fra i sei finalisti c'è un italiano: Stefano De Luigi.
A che progetto stai lavorando adesso?
Mi piacerebbe portare avanti il lavoro sul Mediterraneo. E quello sull'Amazonia, dove sto compiendo un'indagine sul problema dell'inquinamento petrolifero. La seconda parte del lavoro è uscita da poco su Vanity Fair. Ma vorrei completarlo con una terza parte.
Che qualità deve avere un buon fotogiornalista?
Essere bravi tecnicamente non basta. Con l'avvento del digitale l'argomento tecnico mi sembra il meno vincolante. Piuttosto bisogna essere preparati culturalmente e umanamente, avere sensibilità, empatia e grande rispetto per le storie che si raccontano.
Vorrei citare la frase di Josef Koudelka, reporter di Magnum, grande maestro della fotografia. Quando gli chiedevano: "Cosa bisogna fare per diventare un grande fotoreporter?" Lui rispondeva: "Camminare, camminare, camminare". Il fotoreporter deve stare in mezzo alla strada, sporcarsi, camminare tanto, darsi il tempo di entrare nella storia che vuole raccontare. Deve avere un'indole un po' nomade. Ma anche essere leggero, discreto, invisibile: la condizione migliore il fotoreporter la raggiunge quando è diventato talmente familiare, talmente parte del contesto, da non rendersi evidente. Ma non è facile riuscire ad integrarsi.
Che consigli daresti a chi vuole intraprendere questa strada?
Io non ho frequentato nessuna scuola, nessun corso. Ho iniziato a fotografare tanto. Ma se dovessi dare un consiglio ragionevole, direi che frequentare una scuola di fotografia potrebbe essere utile. Ma consiglierei anche di andare alle mostre, di guardare foto, di sfogliare i giornali per capire cosa questi cercano. Ma soprattutto di fare delle esperienze all'estero.